Il fisco prevale sul fondo patrimoniale. Più precisamente, il vincolo del fondo può non proteggere i beni vincolati in esso rispetto all’azione esattoriale per un credito del fisco: “Anche un debito di natura tributaria, sorto per l’esercizio dell’attività imprenditoriale potrebbe ritenersi contratto per soddisfare” i bisogni della famiglia del contribuente che ha istituito il fondo patrimoniale. Lo ha deciso la Cassazione con la sentenza n. 3600 depositata ieri, consolidando un orientamento espresso nelle sentenze n.11230/2003, n. 12998/2006 e n.3738/2015.
Decisioni suffragate da motivazioni che si fatica a condividere. Il ragionamento parte dall’articolo 170 del Codice civile, per il quale il fondo patrimoniale protegge i beni che vi sono immessi contro l’esecuzione forzata promossa per “debiti che il creditore conosceva esser stati contratti per i bisogni della famiglia”. Come giustamente afferma la Cassazione, la norma prefigura tre possibili situazioni:
– i debiti conosciuti dal creditore come contratti nell’interesse della famiglia (in questo caso il fondo patrimoniale non è protettivo, per espressa previsione di legge);
– i debiti conosciuti dal creditore come contratti per scopi estranei all’interesse della famiglia (qui il fondo è protettivo, per espressa previsione di legge);
– i debiti non conosciuti dal creditore come contratti per scopi estranei all’interesse della famiglia.
Quest’ultima situazione è solo implicitamente prevista dalla norma. Quindi, secondo la Cassazione, il fondo in queste situazioni non è protettivo, perché la legge non accorda protezione in questo caso. Cosi, se sia dimostrato che il debito (di qualsivoglia natura: contrattuale, extracontrattuale o tributaria) rientra in questo ambito, il fondo non si presta a proteggere i beni che vi sono vincolati. Questo ragionamento, però, si presta almeno a due facili contestazioni.
Da un lato, è tutto da dimostrare che i debiti di natura non conosciuta dal creditore siano di categoria diversa da quelli conosciuti come estranei alla famiglia: invero, il legislatore ha inteso rendere i beni vincolati nel fondo disponibili ai soli creditori che consapevolmente abbiano maturato le loro ragioni di credito in dipendenza del soddisfacimento di bisogni familiari. Ogni altro credito non dovrebbe trovare soddisfazione sui beni del fondo.
D’altro lato, che il fisco sia un creditore “che non conosceva” la natura del suo credito e che del credito fiscale sia debitore un soggetto che, contraendolo, sta soddisfacendo un bisogno della famiglia, sono due proposizioni che è difficile comprendere. Infatti, il fisco conosce benissimo la natura dei suoi crediti; ed essi sono crediti che appare implausibile qualificare come maturati per il soddisfacimento di un bisogno familiare.
Il debito fiscale, infatti, origina da un’attività (ad esempio: di lavoro autonomo) che la legge interpreta come manifestazione di capacità contributiva; non è l’attività che genera il credito fiscale (semmai genera un credito della controparte contrattuale del debitore), ma il fatto che la legge ravvisi in tale attività un presupposto per l’applicazione di un’imposta. L’attività può benissimo essere (o meno) compiuta nell’interesse della famiglia, ma non certo il debito fiscale che ne origina può qualificarsi contratto nell’interesse della famiglia, perché è il derivato indiretto di quell’attività, dipendente da una norma di diritto pubblico che attribuisce allo Stato il potere di prelievo.