Isee: indennità riconosciute ai disabili non sono reddito

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Il Consiglio di Stato era chiamato a pronunciarsi sulla burrascosa questione relativa alle modalità di determinazioni dei contributi assistenziali calcolati con modello indicatore della situazione economica equivalente (ISEE).

Prima di affrontare il fatto, occorre premettere che il modello ISEE viene introdotto nel 1998,  ed ha lo scopo di fissare criteri uniformi per la valutazione economica di coloro che richiedono servizi sociali o assistenziali. Il legislatore del 2012, alla luce delle numerose problematiche sorte con i criteri fissati nel 1998, delegava al governo l’elaborazione di nuovi regolamenti che avessero ad oggetto la revisione delle modalità di determinazione.

Il fatto oggetto della controversia nasce da soggetti disabili, o congiunti di disabili non autosufficienti, che percepiscono diversi trattamenti assistenziali o sociosanitari,i quali dinanzi all’introduzione del predetto regolamento attuativo, ritenendo talune disposizioni illegittime, perchè limitative del loro accesso alla prestazioni assistenziali, sono insorti innanzi al TAR Lazio.

Il  TAR adito accoglieva parzialmente il ricorso, annullando l’art. 4, c. 2, lett. f) del DPCM 159/2013, nella parte in cui ha incluso, tra i dati da considerare ai fini ISEE per la situazione reddituale, anche i trattamenti assistenziali, previdenziali ed indennitari percepiti dai soggetti portatori di disabilità; e annullando così l’art. 4, c. 4, lett. d) del DPCM, soltanto nella parte in cui, nel fissare le franchigie da detrarre dai redditi, aveva introdotto “… un’indistinta differenziazione tra disabili maggiorenni e minorenni, consentendo un incremento di franchigia solo per quest’ultimi, senza considerare l’effettiva situazione familiare del disabile maggiorenne…”.

La Presidenza del Consiglio dei ministri ed i Ministeri del lavoro e dell’economia e finanze appellavano la sentenza, deducendo vizi procedurali e argomentando nel merito.

Il Collegio rigettava le eccezioni preliminari.

Riguardo al merito del gravame principale rilevava quanto segue.

Va precisato che la motivazione del TAR sta nella stigmatizzazione del fatto che  l’ordinamento ponga a compensazione della oggettiva situazione di svantaggio, anche economico, che ricade sui disabili e sulle loro famiglie i proventi derivanti da trattamenti assistenziali, previdenziali ed indennitari percepiti da tali soggetti, peraltro senza darne adeguata e seria contezza.

Il Collegio, confermando la statuizione del Tar sul punto, non ravvisa alcuna ragione per cui le indennità siano non solo o non tanto reddito esente, quanto reddito rilevante ai fini ISEE. Indipendentemente dal nomen juris assegnato a ciascun emolumento per il calcolo ISEE, se determinate somme sono erogate al fine di attenuare una situazione di svantaggio, tendono a dar effettività al principio di uguaglianza, pertanto ne consegue la loro non equiparabilità ai redditi già di per sé, ossia indipendentemente dalla loro inserzione nel calcolo dell’ISEE.

In altre parole, da un lato è vero che l’ISEE possa, anzi debba, ai fini di un’equa e seria ripartizione dei carichi per i diversi tipi di prestazioni erogabili per il cui accesso tal indicatore è necessario, tener conto di tutti i redditi che sono esenti ai fini IRPEF, purché però tali entrate sia qualificabili come reddito. Però dall’altro non si può non considerare che ai fini dell’ISEE, prevalgano considerazioni di natura assicurativa ex art. 38, commi II e IV, Cost., che integrano il diritto alla salute di cui al precedente art. 32, I c..

Quindi l’assetto introdotto nel 2012 sarebbe corretto fintanto che tali contributi vengano ascritti al perimetro concettuale del reddito; in tal caso, infatti, anche secondo il Supremo Consesso amministrativo, l’obbligo di contribuzione assicurativa non tributaria può assumere anche valori e basi imponibili più adatte allo scopo redistributivo e di benessere senza per forza soggiacere allo stretto principio di progressività, che comunque in vario modo il DPCM assicura.

Tuttavia quando si vuol sussumere alla nozione di reddito un quid di economicamente diverso ed irriducibile, non può il legislatore dimenticare che ogni forma impositiva va comunque ricondotta al principio ex art. 53 Cost. e che le esenzioni e le esclusioni non sono eccezioni alla disciplina del predetto obbligo e/o del presupposto imponibile.

E secondo il Consiglio di Stato, i contributi in questione sono da considerarsi delle indennità o di risarcimento vero e proprio, pertanto non possono rientrare in una qualunque definizione di reddito assunto dal diritto positivo.

In particolare, rileva il collegio che sia le indennità che i risarcimenti difettano di un valore aggiunto, per potersi considerare reddito, ossia la remunerazione d’uno o più fattori produttivi (lavoro, terra, capitale, ecc.) in un dato periodo di tempo, con le correzioni che la legge tributaria se del caso apporta per evitare forme elusive o erosive delle varie basi imponibili.

Infatti l’indennità di accompagnamento e tutte le forme risarcitorie servono non a remunerare alcunché, né certo all’accumulo del patrimonio personale, bensì a compensare un’oggettiva ed ontologica (cioè indipendente da ogni eventuale o ulteriore prestazione assistenziale attiva) situazione d’inabilità che provoca in sé e per sé disagi e diminuzione di capacità reddituale. Tali indennità o il risarcimento sono accordati a chi si trova già così com’è in uno svantaggio, al fine di pervenire in una posizione uguale rispetto a chi non soffre di quest’ultimo ed a ristabilire una parità morale e competitiva. Essi non determinano infatti una “migliore” situazione economica del disabile rispetto al non disabile, al più mirando a colmare tal situazione di svantaggio subita da chi richiede la prestazione assistenziale, prima o anche in assenza di essa. Pertanto, la «capacità selettiva» dell’ISEE, se deve scriminare correttamente le posizioni diverse e trattare egualmente quelle uguali, allora non può compiere l’artificio di definire reddito un’indennità o un risarcimento, ma deve considerali per ciò che essi sono, perché posti a fronte di una condizione di disabilità grave e in sé non altrimenti rimediabile.

Con riferimento al sistema delle franchigie, previste dall’impugnato decreto, non può compensare in modo soddisfacente l’inclusione nell’ISEE di siffatte indennità compensative, per l’evidente ragione che tal sistema s’articola sì in un articolato insieme di benefici ma con detrazioni a favore di beneficiari e di categorie di spese i più svariati, onde in pratica i beneficiari ed i presupposti delle franchigie stesse sono diversi dai destinatari e dai presupposti delle indennità.

Alla luce di quanto sopra, il Collegio, ritiene che ricomprendere tra i redditi i trattamenti indennitari percepiti dai disabili significa allora considerare la disabilità alla stregua di una fonte di reddito – come se fosse un lavoro o un patrimonio – ed i trattamenti erogati dalle pubbliche amministrazioni, non un sostegno al disabile, ma una “remunerazione” del suo stato di invalidità.

Ciò vale anche per il soggetto disabile che abbia conseguito la maggiore età, quantunque il possa far nucleo a sé stante, infatti non solo la maggior età in sé non abbatte i costi della disabilità, ma non v’è un’evidenza statistica significativa sull’incidenza dei disabili facenti nucleo a sé rispetto alla popolazione dei disabili ed al gruppo di chi non costituisce tal nucleo.

Ad avvalorare le proprie motivazioni il Collegio cita l’art. 7 della Convenzione ONU di New York sui diritti dei disabili (ratificata dalla L. 3 marzo 2009, n. 18) secondo cui non può determinare, a parità di doveri di assistenza ex art. 38 Cost., un trattamento deteriore verso soggetti parimenti disabili per il sol fatto dell’età, ché, anzi, la disabilità tende a crescere man mano che il soggetto avanza nell’età. Sicché, venendo al secondo e correlato aspetto, il “far nucleo a sé” non compensa la decurtazione delle detrazioni, a cagione di tal aumentare dei disagi della disabilità connessi ad un’età più anziana.


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