Specie in tempi di crisi economica, quando vivere sotto lo stesso tetto anche se l’amore è finito, è spesso una necessità e non una scelta. La Corte di cassazione, con la sentenza 2360 depositata il 5 febbraio 2016, respinge il ricorso di una ex moglie che cercava, dopo la separazione, di scongiurare il divorzio giocandosi la carta della ritrovata comunione con l’ex marito, a suo avviso dimostrata, da una convivenza che si era protratta quasi fino alla data della domanda di divorzio.
La Cassazione però va oltre le apparenze. In primo luogo la Suprema corte ricorda che l’eccezione di sopravvenuta riconciliazione deve essere proposta dalle parti e non può essere rilevata d’ufficio dal giudice, perché non investe motivi di ordine pubblico ma riguarda strettamente il rapporto di coppia.
Nel caso specifico poi c’erano diversi elementi che deponevano contro la ritrovata armonia: una domanda di addebito formulata dall’ex marito in primo grado e l’accertamento di una tensione che aveva indotto i due a vivere in camere separate.
La prova della convivenza non è in genere risolutiva ma lo è ancora di meno in tempi di recessione, quando la coabitazione è il risultato dell’impossibilità di trovare un altro alloggio a causa dei costi. La Cassazione non manca, infatti, di fare riferimento alla frequenza della «coabitazione inerziale» dovuta «alla notoria caduta dei redditi, accentuatasi in ragione della crisi economica del paese». Per i giudici manca il connotato della ricostituzione del consorzio familiare e del superamento delle condizioni che avevano portato i due a scegliere strade separate.
Per la signora nulla da fare: il divorzio è inevitabile. La ricorrente, che era stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato, riesce invece a scongiurare il pagamento del doppio del contributo unificato pur avendo perso anche in secondo grado. La Cassazione ricorda infatti che il ricorrente in Cassazione che usufruisce del beneficio, non è tenuto, in caso di rigetto dell’impugnazione, a versare l’ulteriore importo.